Racconti
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contattare la SIAE sez. DOR e il sig Marco Ubaldini
responsabile organizzazione
th8z
accadde
alla
Clinica
degli
offesi
T h o m a s O t t o Z i n z i

GL
M’ero intestardito,
volevo che quella persona
capisse.
Attraversavo la città,
ma soprattutto attraversavo
un periodo di vita
dove portavo con me
una torcia elettrica,
perché la luce del giorno
non mi bastava.
Passai sotto la
Clinica degli offesi
e mi soffermai sulla scritta
all’altezza del terrazzo
“chi sta male
sta ancora più male
se non è qualcuno”
Impallidii. Scartai una
caramella e la mangiai
velocemente per stare meglio.
Già, per stare meglio…
Quante cose dovremmo scartare!
C’è un tale affollamento
di solitudini volontarie
che quelle vere sono
poco credibili.
Vidi un uomo che spalava
un po’ di neve
dalla lapide di suo figlio,
incastonata tra due guard rail
con un vaso di fiori indelebili
e una bandiera di uno Stato
che ha un solo articolo
nella sua costituzione
Art.1 Il Paradiso è uno Stato
fondato sull’ingiustizia della Terra.
Sentii freddo alle mani,
le misi per qualche minuto
sotto la pancia d’un cane
disoccupato, che si affilò
i denti –lo lasciai fare-
alla mia caviglia,
protetta da calzettoni spessi
di cotone caldo.
 Dovevo andare
e andai dove
 volevo andare
anche se andare
mi costava caro, ma
volevo che quella persona
capisse e per capirlo
dovevo andare.
Tornai indietro verso
la clinica, ero curioso
di conoscere gli orari
di visita…capire di più,
far visita ad un offeso e
se possibile portare conforto.
Ripresi la strada
con passo deciso, ma
ancora una volta mi fermai
e se ci dovessi andare
anche io lì a farmi ricoverare?
Esiste un pronto soccorso o
si prenota come un hotel?
Ero uscito così deciso
dall’ufficio e ora non sapevo
più che fare. Misi la mano
in tasca e presi la piccola
foto di San Nessuno che
aveva una scritta
Non avere paura hai solo
bisogno di tempo. Baciai
la scritta e ripresi il cammino.
Rallentai per un fastidio
al ginocchio che si spostò
al piede e poi al polpaccio…
anche il dolore faceva avanti
e indietro…non sapeva cosa fare.
Lentamente camminai verso
la stazione dei taxi, ce ne
erano cinque, i primi due vecchi
e squallidi, aspettavo che qualcuno
li prendesse…non volevo salire
su una utilitaria poco rappresentativa.
Il primo autista mi guardava
e io cercavo motivi nei colori
della pensilina, ma arrivò
un gruppo di meridionali con trolley,
appena usciti dall’ennesimo concorso,
che se li portò via tutti!
 Ripresi a zoppicare e andai verso
l’est della città,
il fastidio stava sfumando
e cominciavo a sentirmi meglio.
Dunque, m’ero intestardito,
perché volevo che il mio amico capisse,
cioè doveva capire quello
che non aveva capito…
è per questo che mi ero incaponito,
come si dice al sud!
Ma lui non c’era, era chiaro
e anche se mi accingevo
ad attraversare la città,
 non l’avrei trovato.
 Io stavo cercando
di farmi vedere impegnato…
nella sua mente, in movimento,
indaffarato, intelligente e intuitivo,
fisicamente a posto.
Noi cosiddetti uomini,
possiamo avere questo potere?
Possiamo farci vedere
dal nostro meccanico
mentre piangiamo?
Quel consiglio d’amministrazione
può accettare la mia disperazione?
Credo proprio di no e malgrado
il nostro rapporto poetico
con la fede non  vogliamo
accettarci neppure
con lo sguardo,
noi uomini…stop.
Tapparelle di casa :
tutte abbassate…
tende, doppie tende, triple tende
 che ci escludono dal censimento
d’un quotidiano sentimento.
Nascondiamo  nudità,
ma soprattutto abitudine,
 felicità, povertà , tenerezza
e impegno dietro la persiana.
Non si può fare solo
 beneficenza e quel gioco
natalizio del cameriere
che serve il pasto caldo
ai senza tetto!
Città nascosta che
guarda un film porno,
mangia con le mani,
mena le mani in famiglia,
nasconde ricchezza,
genera malattia…
Vuoi andare a dormire prima di cena?
Vuoi abbracciare quel cane peluche
anche se sei un ingegnere?
Regalaci questa tenerezza
a finestre trasparenti
e  ci ringrazieremo
per esserci scambiati
un po’ di bellezza
e di miseria!
Va bene, va bene…
mi stavo distraendo con i soliti
pensieri, avevo una cosa precisa
da fare e non mi dovevo perdere.
Una madre
con le buste della spesa
usciva  dal mercato rionale,
mi chiese una mano ,
l’aiutai con piacere
Vede, io sono invalida!
Mi dispiace signora,
ma all’apparenza sta molto bene.
Tutte le mamme che perdono
una figlia, sono invalide e
girano con le stampelle
nel cuore.

Ora cosa dovevo fare?
C’era il reparto invalidi alla
Clinica degli offesi?
Me l’hanno uccisa, lo sa?
Non mi chieda come…
Non glielo chiedo, vuole
prendere un cappuccino con me?
Devo tornare a casa,
senza di me non ce la fanno,
lei sembra un anima in pena,
vuole venire a pranzo da noi? Mio marito
sarebbe molto contento d’avere
un ospite sconosciuto!
 Avrei da fare signora.
Cosa? Venga che le fa bene,
abito vicino e dopo riprendere
il suo cammino…
Non sapevo cosa fare,
seguire la mia testardaggine o
lasciarmi andare…
Certe volte siamo stupidi,
pur di non contraddire
le nostre esili convinzioni,
perdiamo le occasioni della vita
per riempire il salvadanaio
dei sentimenti che il più delle volte
ha pochi spicci dentro.
Va bene, signora, l’accompagno
solo per un caffè.
A stomaco vuoto?
Mi faccia il piacere e non sia così
diffidente, mio marito cucina meglio
di quegli cheffini in televisione,
lei andrà via soddisfatto!
In fin dei conti ero contento
dell’imprevisto.
L’altra figlia, almeno credo,
mi accolse con un sorriso e
un bel paio di pantaloni aderenti
nella zona calda, a nord delle gambe
e a campana, a sud delle ginocchia
che facevano intravvedere
la punta dei calzettoni con una rosa sopra.
                                                                                 Fece un cenno per farmi accomodare  e allargando le braccia
mi fece fare una carrellata di tutta la sala…
camino,libreria, pianoforte e la finestra.
Stupito dall’armonia del gesto elegante,
andai a guardare il panorama
della strada e dei palazzi da quell’altezza.
La ragazza non parlava
e io neppure,
ma il calore di quel momento
e quel che vedevo dalla finestra
mi faceva pensare al tempo
che non sapevo più gestire e
al mio lavoro che non era un lavoro,
 oppure, che era un lavoro
che non riuscivo a fare…
avevo inventato un modo
di lavorare senza lavoro!
Io ero il mio datore di lavoro,
il mio dottore, ero la mia segretaria e i
contributi per la mia pensione erano
di stima, affetto, raccolti nei bar, dai mendicanti
fuori dall’ipermercato, dalle suore di Calcutta e
da tante commesse a cui portavo
caffè e cioccolatini a sopresa
nei giorni feriali.
Ora il profumo di brodo
invadeva la casa e la signora
c’invitò a prendere posto nell’anticucina.
Dalla camera uscì in pigiama e mocassini
il padrone di casa, credo, che mi strinse
la mano con entrambe le mani e disse
grazie, veramente grazie!
Grazie a Voi.
No, lei deve solo mangiare e bere,
bere fa bene, rigenera la memoria.
Sorrisi per l’affermazione , anzi risi
e la signora rise con me.
La ragazza s’era cambiata
e anche lei indossò il pigiama
per mangiare.
L’unico in pantaloni, camicia e giacca
ero io, perché guardando bene
 la signora, anche lei aveva la vestaglia!
Noi dopo pranzo dormiamo un paio d’ore,
allunga la vita!
Fate una pausa!
Sì, poi rigenerati
riprendiamo il conto alla rovescia.
Sbadigliai.
Lo vuole un pigiama di mio marito?
Non faccia complimenti,
ne ha uno ancora nuovo che gli
comprai alla Rinascente di Milano
quando Elsa ballava alla Scala.
E’ lei Elsa?
Sì.
 Sentii rientrare la bocca dello stomaco
e lentamente guardai la ragazza
riflessa nell’incavo del cucchiaio
prima che s’immergesse nel brodo.
Va bene, Milano è una città elegante.
Vada nella stanza in fondo e
si metta comodo, ma si sbrighi
che si raffredda.
Mi veniva da ridere,
mi sentivo a mio agio.
E’ bello mangiare in pigiama, vero?
Verissimo.
In un silenzio raro e confortevole,
bevemmo e mangiammo tante cose
accompagnati dalla voce registrata
di Dino Buzzati che leggeva un paio
di capitoli del suo Un amore.
Che bello non cercare sempre
argomenti, ma far parlare
la letteratura che ci fa incontrare
attraverso virgole e punti d’emozione!
La ragazza s’alzò e andò a stendersi sul divano.
La signora mi raccontò che Elsa sarebbe
stata la protagonista di quel romanzo
in una coreografia, ma poi d’improvviso
in una sera di primavera, gliela uccisero!
Allora era la ragazza, Elsa, la vittima!
Quando nell’arte si viene uccisi
è impossibile condurre una vita normale,
ecco perché la signora era invalida!
Guardai quel corpo perfetto,
volevo essere il suo coreografo
in questa seconda parte di vita.
Elsa ha perso la parola, disse il padre
e se lei riuscirà a fargliela tornare,
questa casa sarà sua e noi
potremmo finalmente camminare
verso la via dell’infinito,
angolo viale del tramonto.
 Mi si prosciugò il palato,
ecco perché mi disse di bere e bere
e lo feci per cercare in un angolo di ragione
una risposta decente.
Forse doveva andare
alla clinica degli offesi?
Cosa era successo?
Perché la parte più importante di Elsa,
quella artistica, era morta?
Morte apparente, stava dormendo forse,
e un giorno si sarebbe risvegliata
 ecco perché in quella casa
 eravamo tutti in pigiama!
Mangiava, camminava, leggeva, guardava,
si vestiva, si spogliava…
Nell’arte del teatro si muore e nasce
tutte le sere.
La signora cominciò a lavare i piatti,
il marito ancora a tavola, guardava
una vecchia partita di calcio e
io mi sedetti in poltrona
con più pensieri di prima.
Tra un po’ ti porto un caffè speciale.
Grazie signora.
Il sonno mi prese con se e mi portò
con Elsa in un bosco.
Il bosco delle parole
Mi tolsi la maglia,
perché se la tolse anche lei
e camminammo a petto nudo
tra milioni di foglie.
Che sensazione!
C’era il curriculum interiore
della sua vita e potevo leggere bene
le parole della speranza,
della fatica, dei suoi progetti
e del fiore nel suo cuore
che appena sbocciato nell’arte
era stato calpestato e gettato
sul vialetto delle foglie morte..
 Vidi dov’era quella rosa,
con tanta acqua, forse l’avrei…
Ecco il caffè!
Grazie.
Noi ora usciamo.
Anch’io devo andare.
La prego rimanga, andiamo a messa,
 un aperitivo e a cena siamo a casa.
Avrei da fare, signora.
Non serve intestardirsi
sulle vicende della propria vita,
ci dia una mano e vedrà
che non avrà problemi di salute!
Ammutolii, ci tenevo
alla mia presenza sulla terra.
Se ne vuole un altro è nella caffettiera.
Richiusi gli occhi
fino a che li sentii uscire
e chiudere la porta.
Il sogno che avevo fatto
era significativo e avrei voluto
 raccontarlo ad Elsa.
Mi sei venuta a salvare?
Io non ho bisogno di parlare,
la mia unica espressione è il corpo,
se vuoi puoi parlare
con le mie mani, le gambe, il collo.
Il mio corpo è stato toccato da tutti.
Sono una puttana, forse,
 mi hanno pagato,
mi hanno toccato e strapazzata
da quando ero una bambina.
Ho vissuto in un film muto e
quando ho provato a parlare,
mi hanno lasciata in camerino,
poi in albergo e poi rispedita qui…
Che ne sanno quei due poveracci!
 A Milano per mantenermi,
affittavo e subaffittavo
 nord e sud del mio corpo,
sembrava tutto così poetico,
ma era solo fatica e competizione…
Oltre a schiacciare questo bel seno
ero pressata da un ruolo
che si nutriva di luci artificiali.
Ho dormito poco in questi anni
e voglio riconquistare i sogni.
Elsa aveva scritto tutto questo
sulla parete accanto al pianoforte.
Elsa! Elsa dove sei?
Non mi avrài lasciato solo, in pigiama,
ad aspettare i tuoi genitori
che appena leggeranno quella lettera
sul muro moriranno d’infarto?
Elsa rideva di gioia riconquistata
sotto lo scroscio d’acqua della doccia.
Vieni che ti lavo,
sei sporco di presente!
Mi feci lavare e insaponare l’anima e
nudo con la spugna in mano
 andai a cancellare
quelle parole dal muro e scrissi
ELSA E’ SALVA NON MORITE PIU’
 E uscimmo d’abiti nuovi
a riveder le stelle.
 Non ero più solo.
Non era più sola.
Passammo sotto le finestra della
Clinica degli offesi ,
cominciammo  a urlare e tirare sassi.
I pazienti, erano tanti ,
s’affacciarono - uno prese anche
una pigna in fronte-
e increduli e storditi
da farmaci e permanenza,
non riuscivano a parlare.
 Scendete!
Adelmo, era questo il mio nome,
                                                                       ha bisogno d’aiuto – disse Elsa –
e non possiamo lasciarlo solo!
 Anche Adelmo era offeso
e io, Elsa, per le offese, non parlavo!
E’ vero, ve lo giuro – dissi io! E continuò…
Non ho parlato per cinque anni,
ma grazie ad un periodo in pigiama,
in ascolto solo di cose belle,
ho ritrovato i miei genitori e
 incontrato la speranza in un sogno
che Adelmo ha prodotto indossando
anche lui il pigiama!
E’ tutto vero,
dissi tremante ed emozionato
e ora che mi sono vestito
d’abiti  nuovi ,vi posso dire che è
arrivato il momento di togliervi
il pigiama e riconquistare la vita!
 Ci fu un lungo silenzio,
poi la ricoverata numero 25 che
 – me la ricordo bene-
aveva il banco dei broccoletti al mercato
 dove andavo con mia madre,
si spogliò completamente
e da quel corpo provato
da anni di gelo mattutino
gridò dalle mani
Voglio la strada
a costo di fare la mignotta!
 L’urlolacerante spalancò gli occhi,
 il portone e le nostre bocche
che s’incontrarono
in un bacio
d’anime indifese
così  intenso,
talmente divertente,
  pieno di luce,
che  ritrovai tra le mani
la piccola torcia elettrica.
La scagliai contro
la scritta sotto il terrazzo,
  si frantumò al suolo
e lasciò sospese cinque lettere,
come gli anni del silenzio di Elsa,
 che formarono una parola,
sì, una parola perduta,
una parola per la quale
m’ero tanto intestardito
che nell’oscurità della città
sembrava  A M O R E.
 Febbraio 2013